da Liberal.it
di Renzo Foa [15 febbraio 2008]
La scelta compiuta dall’Udc ha il senso di difendere il valore della presenza dei moderati nella politica italiana rifiutando di nasconderla in un’alleanza trasformata improvvisamente in un listone unico, si può cominciare a immaginare l’impatto che potrà avere. A immaginare, cioè, che la tutela di un simbolo non è solo dovuta a motivi di orgoglio, ma ad aprire la prospettiva di un altro polo, omogeneo per principi di riferimento, per ispirazione, anche per interessi sociali. Le ragioni contingenti della scelta sono quelle dell’aut aut di Berlusconi. Ma dietro c’è un percorso. Quando Casini sosteneva senza deflettere una legge elettorale fondata sul modello tedesco, certamente pensava alla costruzione di un soggetto capace di rappresentare una novità nei processi innescati dall’esaurimento del bipolarismo. La novità di un’area moderata capace di contribuire a rimettere in moto il sistema politico, superando la logica del muro contro muro e trasferendo la sfida dai bunker dei due schieramenti ad uno spazio aperto. Guardando al futuro, questo era il modello tedesco. E non a caso altri avevano la stessa convinzione. Penso a D’Alema e a Rutelli, entrambi in sofferenza in un sistema bloccato, come era quello in funzione fino alla crisi del governo Prodi. Sistema che resterebbe in gran parte bloccato, se l’epilogo di questo passaggio fosse l’instaurazione di un bipartitismo con i due «grandi partiti» presenti ora sulla scena. Quando ci chiediamo cosa siano effettivamente il Pd e il Pdl, aldilà dell’immagine che viene loro costruita attorno, la risposta non è certo quella dell’annuncio di una stabilità ritrovata. Partiamo dai democratici. È vero che sono nati da un tormentato processo di fusione tra Ds e Margherita. È vero che c’è stato il passaggio delle primarie. Ma è anche vero che a prevalere resta sempre l’immagine del leader, che resta quella della promessa. Veltroni è sempre stato una promessa. E oggi il Pd è la promessa di una forza dalla «vocazione maggioritaria» che però resta una miscela difficilmente amalgamabile di culture, di personale politico, di poteri. O, meglio, un contenitore dove c’è spazio per tutti, ma ad una condizione: quella di sciogliere i problemi, solo nel momento in cui diventano ineludibili. Era dunque ineludibile la rottura con l’area che oggi è diventata «Sinistra arcobaleno», era ineludibile «andar da soli», escludendo i cespugli radicali e socialisti, ma accogliendo solo Di Pietro, attraente in quanto rappresentante dell’antipolitica benché pesante quanto a simbolo. Ed era e resta ineludibile anche la scelta di non strutturare compiutamente il Pd, di preferire un mix movimento-leader, per mantenere la natura di un contenitore allargato, più simile quindi ad una coalizione che ad un vero e proprio partito, perfino ad un partito leggero. Il discorso sulla creatura di Berlusconi e Fini è ancor più crudo. Appare al momento un po’ un colpo di immagine un po’ una scorciatoia elettorale. Alleanza Nazionale e Forza Italia manterranno le proprie strutture. Il passaggio da accordo di lista a partito organizzato avrà probabilmente tempi molto lunghi e non si preannuncia indolore. Ma è l’integrazione dei cespugli a completare un disegno che anche in questo caso rivela che si tratta di una coalizione ristrutturata. Perché, anche pensando ad un unico gruppo parlamentare, dovrebbe funzionare meglio che in passato? Il bipartitismo che è stato preannunciato dalla trattativa diretta tra Veltroni e Berlusconi per la riforma elettorale e che ha preso forma, grazie ad un’intensa campagna mediatica, nel momento della caduta del governo Prodi non sembra offrire quelle garanzie di stabilità e di governabilià che tutti inseguono. Il clima più disteso e il linguaggio meno polemico sembrano solo propedeutici al raggiungimento di accordi sulle nuove regole , anche, a parlare ad un’opinione pubblica sulla cui stanchezza verso il bipolarismo blindato è già stato scritto tutto e il contrario di tutto. Paradossalmente si parlava di un bipartitismo futuro, senza tener conto della «Sinistra arcobaleno». In fondo si sarebbe dovuto parlare di tripartitismo, visto che l’area guidata da Fausto Bertinotti e composta da quattro soggetti è stata condannata a mettersi insieme e a prospettare un salto verso il futuro, con equivoci simili a quelli che fanno da zavorra al Pd e al Pdl, a cominciare dal primo, cioè di essere una coalizione sotto mentite spoglie. Il terzo meeting point fissato dopo il fallimento di un’esperienza di governo che è stata anche il fallimento di una legislatura (fortunatamente breve), ma che è stata soprattutto il punto di massima crisi nel rapporto tra politica e pubblica opinione. C’era un rischio vero: che nonostante il cambiamento di sigle e nonostante la semplificazione delle rappresentanze, in realtà il sistema non fosse destinato a cambiare. L’autonomia che l’Udc ha affermato, difendendo il proprio simbolo, può in questo quadro diventare la novità destinata a rimettere in movimento la politica. Non si tratta in questo caso di una coalizione, per quanto piccola, che si offre all’elettorato. È semmai il contrario. Davanti a forze che hanno rinunciato alla propria identità – è successo a tutte, da Rifondazione, ai Ds, alla Margherita, a Forza Italia, ad An e così via – il partito di Casini ripropone la sua identità. È l’espressione intanto del ritorno della questione del voto cattolico, anche se in termini completamente diversi rispetto ai tempi della Dc. In questo quindicennio il cattolicesimo italiano si è profondamente trasformato, soprattutto ricostruendo un forte impianto culturale. Abbiamo trattato l’argomento sul numero di liberal di ieri. Ma, sul piano più strettamente politico, il fatto più rilevante è la riproposizione di un’identità centrista, dopo la stagione del bipolarismo blindato. È la possibile alternativa alla soluzione, prospettata in questi mesi, di uscire dalla crisi con un bipolarismo soft, ma con gli stessi protagonisti (salvo il ritiro di Romano Prodi). È la possibile alternativa ad improvvisazioni politiche di cui è difficile capire la cultura. Quale è la cultura del Pd? Qualle quella della «cosa rossa»? E quale quella del Pdl? È, in altri termini, la novità del possibile quarto polo di un sistema quadripolare, desinato a ridisegnare il sistema aldilà delle intenzioni di Veltroni e di Berlusconi. Un quarto polo, appunto centrista, tra l’«arcobaleno», la connotazione del Pd come forza di centrosinistra e l’immagine che alla fine ha assunto il Pdl più schiacciata sulla destra che sul centro. L’Udc è arrivata a proclamare la sua autonomia in condizioni difficili. Dopo un aut aut del principale alleato. Fra sondaggi sfavorevoli. In un sistema mediatico che finora ha scommesso sul bipartitismo. È riuscita comunque a dimostrare un temperamento, che è diventata merce rara nella politica italiana. Non ha avuto paura di sparigliare i giochi, scegliendo tra l’ammucchiata del listone e la propria identità. Ha davanti una campagna elettorale difficile, in cui dovrà parlare tanto alla grande platea berlusconiana quanto al moderatismo che ha scelto il Pd e che si sente rassicurato da Veltroni. Deve spiegare fino in fondo che per quello che riguarda i valori di riferimento e le opzioni di governo resta ferma la continuità con il passato. Deve convincere di non rappresentare un piccolo partito di «guastatori», ma di avere anch’essa una vocazione maggioritaria, guardando oltre l’appuntamento elettorale di aprile. Deve smantellare l’immagine, che cercheranno di cucirle addosso, di essere una «terza forza» ballerina. Deve contrastare la paura che un suo buon risultato possa favorire il Pd. Ma dalla sua ha un punto di forza: la libertà che le deriva dalla scelta che ha compiuto nello staccarsi da una pratica politica che guarda solo all’immediato e che non sa mettere in gioco i vantaggi del presente per scommettere sul futuro.
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