venerdì 28 marzo 2008

TIBET E TESTIMONIANZA RELIGIOSA

di Antonio Fasol

Pare proprio che i soldati e le trincee scavate nel terreno, storici emblemi che hanno
costellato l’ormai trascorso secolo breve, siano ormai sostituite rispettivamente da inermi monaci,
nuove prime linee esposte al martirio, e da antichi chiostri di templi, ridotti a tragiche icone di
distruzione e morte. Abbiamo ancora negli occhi, infatti, gli orrori perpetrati poco tempo fa contro
altrettanti monaci buddisti della pure martoriata Birmania/Myanmar, ad opera non a caso di un
regime totalitario fortemente ideologizzato, quando l’inarrestabile (in tal caso per fortuna)
globalizzazione mediatica torna a rilanciare simili stridenti immagini, nelle quali il rosso del sangue
sparso mal si combina con l’arancio delle tuniche monacali, simboli solari della luce e della terra
viva.
Difficile peraltro, anche in questo caso, operare una netta distinzione tra religione e politica,
essendo particolarmente intrecciati gli interessi socio-culturali-religiosi nel contesto asiatico ed
orientale in generale, ed altrettanto improprio parlare di “ingerenza” religiosa nel senso occidentale
proprio delle società democratiche. Correttamente, in tal senso, il Dalai Lama ha denunciato una
forma di “genocidio culturale”.
Ciò a maggior ragione nel caso del Buddismo, considerata dagli esperti non una religione in
senso stretto, ma piuttosto una filosofia di vita, ispirata ad un graduale percorso di purificazione e
perfezionamento del sé, lungo il classico ottuplice cammino spirituale.
Ma tornando alla repressione operata dal regime cinese, non si può non scorgervi, a meno che non
si sia schermati da nostalgici paraocchi ideologici di sessantottina memoria, gli effetti tipici di ogni
totalitarismo, appartenente a qualsiasi epoca storica ed ideologia di riferimento: la repressione e
criminalizzazione preconcetta di ogni forma di dissenso interno, la tendenza a minimizzare se non
negare l’evidenza delle stragi e delle violenze, la presentazione di una parvenza esterna il più
possibile socialmente accettabile, la proposta uniformante di una cultura unica e di una politica
mono-colore, tesa a difendere ad ogni costo, seppur mimeticamente rispetto a più nobili
motivazioni, i forti interessi economici derivanti dalla ricchezza mineraria del sottosuolo tibetano.
Pur nell’innegabile sforzo di modernizzazione, peraltro più a carattere tecnologicocommerciale
che etico-sociale, nonché di graduale adeguamento pragmatico alla logica di mercato,
non si può dimenticare che l’attuale ideologia al potere in Cina è figlia di un regime che causò, nel
secolo scorso, sia pur indirettamente tramite una provocata carestia agricola, milioni di morti, e che
soltanto ora trapelano notizie circa l’esistenza di veri e propri campi di lavoro forzato, dove anche
recentemente sarebbero “reclusi” molti perseguitati politici.
Si tratta dei famigerati “Laogai” cinesi, la cui esistenza ed orrori per le disumane pratiche di
tortura sono stati portati alla luce in occidente dalla coraggiosa testimonianza del sopravissuto
Harry Wu, recentemente giunto anche in Italia.
Per non parlare della persecuzione della minoranza cristiana e cattolica in particolare, che
annovera il primato di martiri e di torture subite, da vescovi a sacerdoti a semplici fedeli,
nell’ambito di una presunta libertà religiosa e rispetto dei diritti umani troppo spesso rimasti sulla
carta o nei proclami politici tesi a rassicurare l’occidente, il quale a sua volta troppo spesso più che
una mano sulla coscienza preferisce mettere mano…al portafoglio pieno e agli affari!
Antonio Fasol
(Presidente GRIS Diocesano Verona)

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