di Renzo Foa [29 marzo 2008]
So bene che i posti lasciati liberi nella tribuna d’onore allo stadio Nido d’uccello di Pechino saranno riempiti da altri ospiti o, se non se ne troveranno a sufficienza, da comparse. Ma sarebbe importante per il mondo se, l’8 agosto prossimo, i capi di Stato e di governo delle democrazie occidentali non sedessero accanto ai «grandi mandarini» del regime nazional-comunista cinese. Cioè se con il piccolo gesto della loro assenza inviassero un grande e forte segnale politico che consiste nel riaffermare un concetto molto semplice: svolgete pure le Olimpiadi, che tanto non sono solo vostre, ma appartengono un po’ a tutti, però noi non veniamo perché rappresentiamo un mondo che si preoccupa dei diritti dell’uomo, quindi del Tibet, quindi della libertà individuale, quindi dei diritti civili; per questo non saremo lì, in quello che è il momento più importante della vostra autocelebrazione, seguito da miliardi di persone in diretta televisiva. So bene che George W. Bush ha già detto e ripetuto che lui ci andrà. Che non intende rimangiarsi un impegno già preso, nel contesto di un intenso e complicato rapporto tra due delle maggiori potenze globali. E che è della stessa opinione il premier britannico Gordon Brown. Si tratta – e questo è il paradosso – dei rappresentanti di due Stati che dal 2001 si sono mossi insieme, di concerto, per intervenire prima in Afghanistan e poi in Irak, rovesciando regimi tirannici e nel nome della tanto criticata «esportazione della democrazia». La loro presenza avrebbe dovuto quindi suonare come un lasciapassare per tutti. Invece, è difficile non pensare al gesto di Nicolas Sarkozy. Che ha una gran voglia di essere assente, che spera di riuscire a non andare a Pechino, anche se in quei giorni, come presidente di turno dell’Unione europea, dovrà uniformarsi all’opinione della maggioranza dei suoi partners. I quali hanno però già cominciato a dire la loro, a cominciare dal cancelliere tedesco Angela Merkel, la quale non ci sarà, pur con una giustificazione pubblica dai toni molto diplomatici. E a cominciare anche dai presidenti ceco e polacco, i quali rappresentano Paesi che hanno conosciuto fino a vent’anni fa il totalitarismo e la violazione dei diritti umani e che, per questo, sono più decisi e sicuri. Insomma, ci sono pezzi importanti d’Europa che hanno saputo già scegliere. Che sono capaci di assumere la responsabilità di un gesto. Un gesto che equivale a infrangere il tabù: non disturbare il gigante economico e finanziario del mondo globalizzato. E l’Italia? È nel pieno di una brutta campagna elettorale, da cui sono assenti il mondo e la sua complessità. Non sa neanche con certezza chi, fra cinque mesi, sarà presidente del Consiglio. Dovrebbe essere Silvio Berlusconi, stando a tutti i sondaggi e a tutte le previsioni, Berlusconi che tra il 2001 e il 2006 da presidente del Consiglio non si è tirato indietro rispetto a scelte di politica internazionale scomode e di rottura. Ma nella competizione sono impegnate altre figure, in particolare Walter Veltroni che, in questi anni, da sindaco di Roma e prima da leader dei Ds, non ha trascurato di farsi carico di proporre il tema dei diritti dell’uomo. Sarebbe utile se questi e tutti gli altri candidati dicessero esplicitamente all’elettorato cosa intendono fare l’8 agosto. Cosa intendono scrivere sull’agenda. Se decideranno di andare lo stesso a Pechino o se, al contrario, preferiranno con la loro assenza dire ai cinesi che il rispetto delle Olimpiadi non equivale ad una solidarietà politica. Sarebbe utile per sapere che idea hanno concretamente del mondo e del contributo che l’Italia deve dare. Perché non bastano le buone intenzioni. Ci sono scelte da fare. So anche che questa non è una scelta facile per nessuno. Maneggiare la Cina è complicatissimo, soprattutto per un Paese il cui sistema economico e sociale fatica a fare i conti con la complessità del mondo globalizzato. Maneggiare la Cina significa misurarsi con un impetuoso sviluppo economico in condizioni di mancanza di libertà. Con tutto ciò che ne consegue, a cominciare dall’inattesa smentita alle visioni e alle interpretazioni culturali dell’ultimo secolo e finendo con tutti i rischi di complicare un rapporto bilaterale a cui non si può rinunciare. Ma quel che si chiede, una volta tanto, è di compiere un gesto politico responsabile. E responsabilità non significa realismo, cioè accettare sempre e comunque lo status quo. Responsabilità significa in primo luogo scegliere tra i repressori e i repressi. Dire apertamente da che parte si sta. Ieri proprie dalle pagine di liberal, Aldo Forbice ha scritto che «si può boicottare Pechino», che lo si può fare nell’unica forma possibile, appunto quella dell’assenza dalla cerimonia inaugurale, il cui significato è essenzialmente politico. È una strada percorribile anche dall’Italia, visto che è stata aperta da Sarkozy. In discussione, in questo caso, non è la partecipazione ad un intervento militare, cioè le grandi scelte su cui si sono divise la società e la politica italiana, quando si parla di Afghanistan, di Irak, di Kosovo, di Israele e dei palestinesi. Non si tratta del vecchio e semplice schema pace-guerra. Si tratta semplicemente di non partecipare ad una passerella di regime, da cui risulterebbe che si è più vicini al regime nazional-comunista di quanto non lo si sia con le sue vittime. Non vorrei vedere in televisione, il presidente del Consiglio seduto sulla sua poltroncina nella tribuna d’onore del Nido d’uccello, accanto ai «mandarini» nazional-comunisti, applaudendo non uno spettacolo qualsiasi, ma l’inno ad un regime che con i tibetani rifiuta anche la sola idea di aprire un dialogo. Del resto proprio le cerimonie inaugurali dei Giochi olimpici sono ormai da anni solo un grande e spettacolare momento celebrativo del Paese organizzatore, della sua forza e della sua grandezza. L’8 agosto prossimo sarà appunto il momento celebrativo della «gloria» della Cina. La gloria di una fase di ricchezza e di sviluppo, che sta migliorando il mondo, ma anche di un’inaccettabile violazione dei diritti umani e di un’altrettanto inaccettabile repressione in Tibet, che sta invece mostrando il volto peggiore del mondo. A questo appuntamento bisogna mancare. Poi che è giusto che la festa continui, nei giorni delle gare, delle competizioni, delle sfide tra gli atleti dei cinque continenti. Che sono, di norma, anche i giorni di un altro grande incontro, con migliaia di giornalisti e di turisti stranieri in giro per le città. I giorni di quella che si può definire una «contaminazione» tra stili di vita e culture diverse. I giorni in cui società, governate in modo autoritario, hanno l’occasione di essere un po’ più libere. Che ci fosse questo grande problema lo si sapeva fin dal momento dell’assegnazione alla Cina di questa edizione olimpica, la ventinovesima dell’era moderna. Lo sapeva il mondo e lo sapeva il regime di Pechino. Da cui ci aspettava almeno il rispetto della tregua olimpica, quella che scattava nell’antica Grecia. E da cui quindi ci si aspettava un atteggiamento diverso da quello seguito in queste settimane. Invece, i «grandi mandarini», con perfidia confuciana, si sono trincerati dietro i Giochi olimpici, li hanno presi in ostaggio, hanno scaricato sulle democrazie occidentali il secco dilemma tra il boicottaggio e il far finta di niente, sapendo che la prima opzione sarebbe stata impraticabile. È stato un ricatto. E l’unico modo di rispondere con efficacia è proprio quello di disertare la cerimonia inaugurale, il giorno dell’autocelebrazione non di una nazione, ma di un regime.
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