Dal Foglio di venerdì 11 aprile
Così uccisi un bimbo Down
“Aveva due mesi, si scelse il soffocamento. Il primo tentativo fallisce, allora gli abbiamo messo sul viso un sacchetto di plastica”. Testimonianza uscita su Le Temps Modernes, la rivista di Sartre, nel 1974. Non successe nulla
Tra i molti meriti dell’ultimo libro della storica e femminista Anna Bravo, c’è quello di aver riportato alla memoria un episodio estremo ma significativo di come il rifiuto del limite, variamente teorizzato negli anni dei movimenti, abbia partorito mostruosità. La vicenda alla quale la Bravo ha deciso di dedicare un intero capitolo del suo “A colpi di cuore. Storie del Sessantotto”, appena uscito per Laterza, è quella dell’uccisione casalinga di un bambino Down, decisa e realizzata dai genitori e dai loro amici più stretti. Raccontata nei dettagli (si può dire rivendicata) dai protagonisti, nascosti dietro semplici iniziali, apparve sul numero di aprile-maggio del 1974 di Les Temps Modernes, la rivista di Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir e Claude Lanzmann. Era un numero speciale del bimestrale, che presentava testimonianze di donne, scritte “perché nessuna faccia più la loro stessa esperienza” e collocate in una sezione intitolata molto sartrianamente “Désires-Délires”. Desideri e deliri presentati senza alcun commento, se non quello implicito nell’assenza di qualsiasi commento. Storie politicamente esemplari, da cui trarre lezioni e indicazioni ideali e di lotta. Dell’infanticidio non si parla né nella post fazione al fascicolo, né nella presentazione, affidata a Simone de Beauvoir. La quale si augura solo che la rivista “semini turbamento”.L’assassinio del bambino, un neonato di due mesi che era stato appena consegnato ai genitori dopo un periodo passato nell’incubatrice, è, scrive Anna Bravo, “eseguito con la partecipazione di tutti, studiato ‘tecnicamente e tatticamente’ perché sia un delitto perfetto”. C’è qualche tentativo di informarsi su terapie che non esistono, c’è l’amica che consiglia di usare l’anestetico e di cercare un medico disposto a firmare il certificato di morte (“il bambino non soffrirebbe e noi non avremmo corso alcun rischio dal lato giustizia”). Tutti i medici rifiutano, e allora si sceglie il soffocamento. Il primo tentativo, fatto con un cuscino e delle coperte, fallisce. Scrivono i congiurati su Les Temps Modernes: “All’alba non era ancora morto, respirava tranquillamente nel suo fagotto. La notte aveva strillato spesso ma non era mai l’ultimo pianto. Allora abbiamo aperto il fagotto nel quale dormiva e gli abbiamo messo sul viso un sacchetto di plastica; è stato necessario tenerlo ben stretto e controllare che tutto finisse come doveva. E’ morto soffocato quasi immediatamente”. Doveva essere ucciso e allora “lo si è fatto insieme, eravamo tristi ma sicuri di essere nel giusto. Non abbiamo commesso un delitto, abbiamo fatto soltanto una cosa necessaria”. Necessaria perché un medico non ha voluto sentir parlare dell’amniocentesi, un altro ha rianimato il bambino in sala parto anche se c’era la certezza che fosse Down, altri medici si sono rifiutati di sopprimerlo. L’esperienza da cui si dice di voler proteggere “le altre donne”, commenta Anna Bravo, non è dunque “l’uccisione del figlio, è la necessità di farlo in prima persona. Infatti si chiede a ‘quelli che hanno la competenza tecnica e il potere giuridico per farlo impediscano a di neonati mongoloidi di vivere in piena coscienza, piuttosto che chi si trova a vivere con un bambino sia obbligato (corsivo della Bravo) a ucciderlo, a lasciarlo in un istituto, a diventare genitori anormali di bambini anormali’. Lo stato è messo sotto accusa per mancata politica eugenetica”. Una storia atroce, per la quale non basta evocare l’infinita catena che va da Medea agli infanticidi per miseria o a quelli per follia. Una vicenda, dice Anna Bravo che “sta fra la Cina e il Terzo Reich”. C’è il rifiuto della creatura sbagliata (in Cina sono sempre sbagliate le femmine, abortite o soppresse alla nascita) e c’è anche la convinzione di essere nel giusto, “per Hitler il diritto a un popolo superiore, per la madre a avere un figlio ‘normale’”. C’è soprattutto quel ripugnante ricorso a giustificazioni sedicenti politiche da parte degli assassini, i quali si applicano a spiegare che “i mongoloidi” non sono degni di vivere perché mai avranno “la possibilità di rivoltarsi, di lottare per vivere meglio, perché nascendo sono totalmente dipendenti da chi se ne prende cura e tali resteranno”. E’ qui che la vicenda, che di per sé non è figlia né del femminismo né di altri movimenti, dice Anna Bravo – ma semmai rimanda “in parte a una mai morta concezione proprietaria della maternità” – rivela “tristissimi incroci fra il rivoluzionarismo e il mondo contro cui si pensa di lottare… a cominciare dal richiamo alla politica, dove tutto è gerarchizzato: vite stroncate ingiustamente contro vite ingiustamente create; la possibilità di lottare come condizione per vivere; il collettivo come fonte di legittimazione superiore all’assunzione della responsabilità personale”. E poi c’è il primato del desiderio, il mito dell’autonomia che si stravolge “nell’orrore della dipendenza, mentre sparisce il limite come argine all’ideologia secondo cui senza una gloriosa integrità non vale la pena di stare al mondo”. Non manca nemmeno l’appello alla compassione. Scriveva la madre assassina: “Sì, ti amavo, piccolo mio, quando ti guardavo dietro i vetri del reparto prematuri; poi quando ti abbiamo portato a casa, ti sono stata accanto giorno e notte sapendo in ogni momento che il solo atto d’amore che potevamo fare per te, per noi, per la vita, era darti la morte, e potevo vivere questo amore e questa determinazione quasi con serenità perché non ero sola, perché eravamo in tanti a volere la stessa cosa”. Dopo la pubblicazione di quella testimonianza su Les Temps Modernes, non succederà assolutamente niente. Non se ne parlerà sui numeri successivi né altrove, nulla accadrà nemmeno alla ripubblicazione in un libro di quello e degli altri racconti di vita vissuta di “Désires-Délires”, un anno dopo. Nessuno commenterà mai la vicenda. Di quel macigno, conclude Anna Bravo, si è avuto paura. Si è avuto paura di riconoscervi l’atto di guerra “dei grandi/ sani/ uniti contro l’imperfetto/ piccolo/ solo”
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