Albert Camus ha dedicato alcune delle pagine più belle e significative del suo “L’Uomo in rivolta” al regicidio, la più alta forma di attacco alla Monarchia. Uccidendo il Re si uccide il suo Regno, si attacca, quindi, direttamente il fulcro emanatore del suo potere. Camus prende a modello il regicidio più famoso della storia, quello perpetrato ai danni di Luigi XVI, ultimo re della Francia assolutistica e totalitaria. Il filosofo francese spiega con grande semplicità che “non sempre il regicidio diventa sinonimo di libertà”. A volte, infatti, potrebbe semplicemente essere un modo di sostituire un re scomodo, non amato dai sudditi. Di intrighi del genere ce ne sono stati tanti nel mondo antico. Chi non ricorda le congiure di palazzo a Roma durante i fastosi banchetti imperiali? Ciò nonostante quando un imperatore veniva assassinato, veniva immediatamente nominato il suo successore: a nessuno sarebbe mai venuto in mente di ucciderlo per mettere la parola fine al potere imperiale. E così è stato a lungo nella storia, fino a quando sul patibolo non salì Luigi XVI. “Vive la République!” fu il grido che pervase le strade di una Parigi in festa: dopo di lui i francesi non vorranno più nessun altro re. Prima di lui già Oliver Crowmell se ne era servito in Inghilterra per eliminare lo sconfitto Carlo I e sostituire alla monarchia un governo repubblicano. Ma oggi, dicembre 2009, un regicidio è ancora pensabile? È ancora ipotizzabile colpire il massimo esponente di un sistema democratico? Di sicuro è possibile farlo. Abbiamo visto tutti cosa sia successo al Presidente del Consiglio due domeniche fa a Milano: una riproduzione in gesso e metallo del Duomo di Milano lo ha colpito in pieno, causandogli la frattura di due denti e del setto nasale. Le immagini di quegli istanti ci sono state riproposte centinaia di volte in televisione, accompagnate ogni volta da commenti di autorevoli personaggi, pronti a condannare questo atto di violenza inaudito e ingiustificabile. Più o meno, dicevano tutti la stessa cosa, finché un intellettuale di grande valore come Giuliano Ferrara, direttore de “Il Foglio”, si è chiesto: “e se fosse regicidio?”. Ammettiamo pure che lo fosse (in fondo Berlusconi è pur sempre il nostro presidente del consiglio e resta il leader assoluto del più grande partito politico italiano) resta da definire l’identità di questo regicidio e il suo obiettivo finale: lo psicolabile Tartaglia voleva colpire lo Stato, rappresentato in quel momento dal premier, o il Berlusconi uomo? La risposta è scontata: il colpo era indirizzato all’uomo, non all’istituzione. È bastato un attimo, un solo attimo e il Principe Silvio si è trasfigurato in una maschera di sangue, il suo corpo si è fatto pesante ed è crollato a terra e il suo sguardo è diventato assente. Sembrava davvero la fine più cruenta e terribile del quindicennio berlusconiano. E invece è andata bene: Berlusconi si è rialzato ed è stato prontamente ricoverato, al sicuro da ogni altro rischio. Prima di lui solo Mussolini ci era andato così vicino. La mattina del 7 aprile 1926, infatti, venne ferito da una donna inglese, Violet Gibson, che gli sparò da distanza ravvicinata, ferendolo lievemente al naso. Il giorno dopo, Mussolini, appena medicato prima di recarsi in Libia, commentò: «Le pallottole passano e Mussolini resta». Ma già Niccolò Machiavelli nel suo De Principatibus metteva in guardia il Principe dal male che i suoi sudditi avrebbero potuto tramare nei suoi confronti e per questo lo invitava a essere “furbo come la volpe e forte come il lione”: il Principe deve “antivedere” ogni possibile “disastro” e cercare ogni mezzo per neutralizzarne i danni. Non so quanto il nostro Principe sia stato in grado di farlo: di sicuro non lo è stata la sua scorta, che lo ha ripetutamente esposto a rischi sempre maggiori nei minuti dopo il lancio della statuetta. Karl Marx nell'incipit de Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte scrive: “Hegel nota in un passo delle sue opere che tutti i grandi fatti e i grandi personaggi della storia universale si presentano, per così dire, due volte. Ha dimenticato di aggiungere: la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa”. Se è davvero così, la trasfigurazione sanguinolenta del premier rappresenterebbe il primo segno del suo declino e ciò rischia solo di infervorare il già teso clima politico ancor di più. Gli estremisti non mancano, in nessuno dei due poli. Si presentano solo in forma diversa: a sinistra giustizialisti e forcaioli, a destra reazionari e “proscrizionisti”. E in questo modo il dialogo necessario tra i due poli viene meno e viene soffocato dal protagonismo di qualche aspirante leaderino. I risultati di questa politica dello scontro e del sangue sono sotto gli occhi di tutti: il tentato regicidio ai danni di Berlusconi ne è la prova più evidente. Oggi serve necessariamente il dialogo e tutti noi abbiamo il dovere morale e politico di favorirlo con ogni mezzo a nostra disposizione. Anche a costo di scontrarci con i pregiudizi dell’opinione pubblica. Oggi servono coraggio, riflessione e buona volontà. Li troveremo?
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